sabato 19 febbraio 2011

I Fratelli di Gesù


Gli ebrei con la parola “ah” (=fratello) esprimevano la parentela in genere o addirittura semplicemente compaesano o compatriota; essi quando volevano indicare un fratello germano (=uterino, di sangue) ricorrevano ad espressioni più lunghe, come “figlio di suo fratello”, “figlio di sua madre” ecc.. Gesù è sempre indicato come figlio di Maria. GLI ALTRI MAI.
Le parole greche che significano “fratello e “sorella”, non sempre in senso stretto ed anche in senso traslato, traducono termini ebraico-aramaici che oltre a designare i figli di stessi genitori, designano anche parenti prossimi, specialmente per consanguineità, senza specificare il grado di parentela.
Per i vari gradi di parentela, poi, le due lingue non possiedono neppure tutti i vari termini che hanno le nostre lingue odierne.

Dimostreremo -come accennato in apertura-  che i fratelli di Gesù menzionati nella Bibbia in realtà sono suoi parenti.
Chi avrebbe il dovere di confrontare e verificare, per “mestiere” sono i teologi, ma “ciò che chiaramente determina l’atteggiamento degli studiosi protestanti (e di qualche cattolico deviato) è la convinzione che la tesi cattolica (“cugini” o, comunque , membri del clan familiare) non sia il frutto di una ricerca rigorosa sui documenti storici, bensì conseguenza obbligata della dottrina della perpetua verginità di Maria che ogni cattolico è tenuto a credere. Ha scritto il riformato razionalista Maurice Gougel: <<Non esiste un problema dei fratelli del Signore per la storia ma soltanto per la dogmatica cattolica>>. 

O il luterano Joseph Bornkamm: <<Soltanto convenienze dottrinali cattoliche (od ortodosse), non i documenti di cui disponiamo, hanno fatto di questi fratelli dei fratellastri o dei cugini, per difendere la perpetua verginità di Maria>>. Questa è pure la tesi di qualche teologo cattolico progressista. Il professor Joseph Blinzer grande esegeta tedesco ci dice che: <<Possiamo dimostrare che ci troviamo di fronte a un preconcetto e che l’interpretazione cattolica dell’espressione “fratelli del Signore” non è aprioristica, non è difesa astratta di un dogma, bensì prende seriamente in considerazione la testimonianza della storia, vale a dire del Nuovo Testamento e della Tradizione più antica>>.

Una sfida che, però è rimasta ancora una volta inascoltata: come notava, con amarezza, lo stesso Blinzer, <<se c’è una differenza nel modo con cui l’esegesi protestante e quella cattolica presentano le loro posizioni, essa consiste nel fatto che da parte cattolica si ha cura di tenere conto degli argomenti della controparte, per replicare; mentre gli autori protestanti di regola ritengono superfluo perdere ancora tempo e procedere al confronto>>.

Una sorta di complesso un po’ sprezzante di superiorità -complesso non limitato peraltro a questo tema- con cui specialisti che dicono di rifarsi alla Riforma (i cui fondatori, lo ripetiamo, in realtà danno loro torto: ma si ha cura di non farlo sapere) guardano a quegli attardati, miracolisti, magari superstiziosi cattolici, per i quali sarebbero importanti banali questioni trivialmente ginecologiche come la verginità perpetua della madre di Gesù.” (Cfr. V. Messori, Ipotesi su Maria.)
In effetti fino all’anno 380 non ci fu problema alcuno sull’interpretazione della parola “fratello” nel contesto biblico.

“L’equivoco fu volutamente provocato da Elvidio, un oscuro laico che si inseriva nel dibattito allora rovente sulla superiorità del celibato religioso rispetto al matrimonio. L’esplosione del fenomeno del monachesimo (quasi come un sostituto al martirio), dopo i provvedimenti liberali di Costantino, portava una tale sopravvalutazione della verginità e a una così forte diffidenza verso i rapporti coniugali da provocare una reazione vivace. Il pamphlet di Elvidio si inseriva in questa polemica ed era <<basato non sull’antica Tradizione ma su un’esegesi del Nuovo Testamento certamente errata, da dilettante>>. Così Blinzer. Ciò che l’oscuro polemista voleva era replicare ai fautori della superiorità del monachesimo, cercando di dimostrare che anche Giuseppe e Maria avevano fondato una famiglia che, oltre al Primogenito, aveva avuto molti altri figli. Partiva dunque non da un approfondimento dei testi della fede, bensì da una tesi prefissata per la quale trovare giustificazioni.
Il maggiore biblista del tempo era san Girolamo che, probabilmente non avrebbe replicato a un polemista così mediocre, rispetto a lui. Ma, sollecitato da persone autorevoli (era allora a Roma e non in Oriente dove, soprattutto il Palestina, visse a lungo), scrisse un trattato: De perpetua virginitate Mariae. Quell’incauto dilettante di Elvidio era fatto a pezzi dal focoso santo, che conosceva ogni riposta sfumatura della Scrittura e delle lingue, ebraico e greco, in cui è scritta, tanto da darci la traduzione in latino che è restata canonica. Per Girolamo, comunque, i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù erano cugini e non figli di Giuseppe: e lo dimostrava con argomenti la cui sostanziale validità è riconosciuta anche oggi.
Tutti i grandi scrittori cristiani, sia allora che dopo, plaudirono all’opera, divenuta classica.
Da allora non ci furono praticamente altre discussioni su Gesù come unico figlio nato per opera dello Spirito Santo; come ricordavo, neppure da parte della Riforma. 

La tesi di Maria come madre di famiglia numerosa rinacque solo tra Sette e Ottocento, nell’ambito del protestantesimo liberale, dell’illuminismo, del razionalismo. Anche se da molto tempo è preponderante tra gli evangelici – e insidia ora i cattolici complessati-, non va dimenticato che, malgrado la sicurezza <<scientifica>> con cui è spacciata, è una teoria recente, limitata a dei professori e contrasta con la certezza di fede espressa unanimemente per tanti secoli. Ultimamente si è cominciato a fare i conti con il fatto che almeno tre dei Vangeli sarebbero la traduzione in greco di un testo aramaico; e che, dunque, dietro alle espressioni elleniche c’è un sostrato semita, non di rado tradotto in modo impreciso. Tra l’altro, queste indagini -che stanno dando risultati sorprendenti- contribuiscono a rendere sempre meno salda quella esegesi cosiddetta <<storico-critica>>.
All’orizzonte si affaccia quindi l’ipotesi, sempre più reale, che i Vangeli sono stati scritti prima dell’anno 70, in lingua aramaica.

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